Quando si presenta un’istanza di revoca del divieto di detenzione armi, la Prefettura avvia un procedimento e deve concluderlo. Non è ammesso che l’amministrazione resti in silenzio sulla domanda: se lo fa, la persona interessata può presentare il ricorso al giudice.
Una volta avviato il procedimento per il riesame di un divieto di detenzione armi, la Prefettura ha il dovere di concluderlo, in un senso o nell’altro.
La Legge infatti non prevede che l’amministrazione resti zitta sulla domanda, né che in automatico giunga a conclusioni senza istruttoria.
Tutto questo trova specifiche garanzie per la persona interessata, nel senso che al verificarsi di una situazione come quella descritta si può avviare il ricorso al Tar per dolersi del silenzio serbato dall’articolazione del Ministero dell’Interno.
Ma vediamo, un po’ più da vicino, come funziona questo meccanismo giuridico e, per farlo, sfruttiamo un caso pratico tratto da una sentenza del Tar Friuli Venezia Giulia, la n. 13/2020 pubblicata in data 11.01.2020.
Dunque, il ricorrente ha subito un procedimento penale per reati connessi alla detenzione di armi.
Ancor prima della condanna il Prefetto dispone nei suoi confronti, in seguito ai fatti sulla cui base ne era stato disposto l’arresto, il divieto di porto d’armi ad uso venatorio, ai sensi dell’art. 39 del T.U.L.P.S.
Il Tribunale di Sorveglianza accoglie la domanda di riabilitazione.
Sulla base di questa pronuncia formula un’istanza al Prefetto di revoca del divieto di porto d’armi; tale istanza resta però senza risposta.
Passa quindi alla fase successiva con il ricorso e chiede l’accertamento dell’illegittimità del silenzio serbato dall’Amministrazione, con condanna della stessa ad adottare un provvedimento espresso, a conclusione del procedimento instaurato con la domanda di riesame prodotta.
Ebbene, il ricorso viene ritenuto fondato.
In pratica, dice il Tar, l’istanza di revoca formulata dal ricorrente ha dato luogo ad un procedimento e ad un’istruttoria destinata all’adozione di una determinazione finale.
Detta determinazione e lo stesso procedimento che ne costituisce la premessa risultano riconducibili ad una complessiva e autonoma valutazione dei requisiti attuali necessari per il rilascio della licenza di porto d’armi, piuttosto che alla mera rivisitazione degli atti pregressi.
In questo modo trova piena esplicazione il principio espresso dal Consiglio di Stato (Sez. III, n. 1072/2015), dovendosi considerare vietato ogni automatico diniego, allorché sui fatti oggetto di contestazione sia intervenuta, in sede penale, la pronuncia di estinzione del reato, da parte del giudice dell’esecuzione, ovvero la ben più pregnante declaratoria di riabilitazione, adottata dal Tribunale di Sorveglianza.
L’eventuale rigetto richiederebbe, dunque, l’adozione di un ulteriore provvedimento finale, finalizzato a concludere il procedimento, con l’accoglimento o la reiezione della domanda proposta dall’interessato, a seguito di una valutazione discrezionale scevra di qualsiasi automatismo preclusivo (cfr. C. Cost. sent. n. 109/2019).
In sostanza, viene accertato l’inadempimento dell’Amministrazione rispetto al dovere di conclusione del procedimento avviato con l’istanza del privato, essendo inutilmente trascorso il termine stabilito per l’emissione dell’atto finale.
Con riguardo all’obbligo di provvedere, l'Autorità è tenuta, in esecuzione della sentenza, anche mediante l'attivazione del contraddittorio con il ricorrente, a provvedere alla compiuta disamina dell'istanza, benché riqualificata nei termini sopra indicati, valutando l’attuale sussistenza dei presupposti e dei requisiti prescritti, nonché l'eventuale insorgenza di nuovi motivi ostativi al rilascio del porto d’armi.
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