Se ne esce con una soluzione offerta nel 2014 dal Consiglio di Stato e sempre attuale.
In sintesi: la Prefettura di Reggio Calabria dispone nei confronti dell’interessato il divieto di detenere armi, in quanto fratello di Tizia che convive con persona gravata da vicende giudiziarie, oltre a ricoprire ruoli di primaria importanza in una cosca della ndrangheta.
Senza giri di parole, si parla in modo assai chiaro di rapporti di parentela con un soggetto per il quale risultano pregiudizi penali relativi a reati connessi alla criminalità organizzata.
Sono legami che, pare, incidano sull’affidabilità della persona, dal momento che non si può escludere a priori che le armi stesse possano entrare nella materiale disponibilità di terzi socialmente pericolosi.
In primo grado l’interessato perde quindi la causa: con sentenza n. 912 del 2011 il Tar, facendo leva sui precedenti giurisprudenziali in materia respinge il ricorso.
Davanti al Consiglio di Stato, invece, tutt’altra musica: nel 2014 l’appello viene accolto.
Prima di vedere il perché di questa decisione, passiamo alla sintesi della posizione dell’appellante e del Ministero controparte.
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La posizione dell’appellante
Combatte le conclusioni del primo giudizio insistendo sulla violazione degli artt. 11 e 39 r.d. n. 773/31 e sull’eccesso di potere, sottolineando profili di carenza, contraddittorietà ed erroneità della motivazione del provvedimento impugnato.
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La posizione del Ministero
Si difende in questo grado di giudizio con un atto formale, senza particolari approfondimenti.
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La posizione del Consiglio di Stato
La sentenza è della Sezione 3: la n. 1924 del 16 aprile 2014.
Il ragionamento dei Magistrati parte da qui: l’inibitoria della detenzione di armi si basa sul rapporto di affinità della persona abilitata alla detenzione con un’altra persona nei cui confronti gravano precedenti giudiziari e, cosa da non poco conto a prima vista, che ricopre ruoli di spicco in un clan malavitoso.
A parere dei Supremi Giudici sono in gioco, quindi, le condizioni di sicurezza e di incolumità delle persone rispetto al rischio di una possibile sottrazione dell'arma da parte di soggetti socialmente pericolosi.
Il Collegio prosegue però nel ragionamento ed inizia a demolire la tesi del Ministero.
Dice: data per scontata l’esistenza di un quadro di vasta discrezionalità di cui l’Amministrazione dispone sull’adozione di provvedimenti che impediscono la disponibilità di armi di offesa per la prevenzione di possibili abusi, ebbene queste scelte devono essere sempre sostenute da una motivazione (precisamente da una “congrua motivazione”) sui presupposti ed elementi significativi che spingono ad una restrizione della sfera giuridica del destinatario.
Neppure, sul piano soggettivo, si parla di precedenti penali a carico dell'appellante e, tantomeno, una condotta di vita al limite segnata da episodi che possano far dubitare della sua irreprensibilità morale, o che siano sintomatici di una vicinanza ad appartenenti ad organizzazioni criminali.
Il Consiglio di Stato si è già pronunciato su casi analoghi ed ha ritenuto illegittimo il provvedimento di inibitoria basato sul solo elemento soggettivo del rapporto di parentela o di affinità, senza indicare eventi e circostanze da cui possa derivare il pericolo per omessa o insufficiente custodia.
Tanto più che, nel luogo periodo in cui il ricorrente è stato autorizzato alla detenzione delle armi, non sono mai emersi rilievi ed inadempienze sul corretto assolvimento degli obblighi di custodia.
Per le considerazioni che precedono l'appello va accolto e, per l'effetto, va accolto il ricorso di primo grado e va annullato il provvedimento impugnato n. 13342/W/Area I bis in data 25 febbraio 2010. Resta fermo che la presente decisione non preclude in assoluto all'autorità di p.s. l'esercizio dei poteri di controllo e di riesame, qualora emergano elementi di fatto significativi paventato vulnus alle condizioni di sicurezza, ordine pubblico ed incolumità delle persone, nel senso sopra accennato, e ne venga dato adeguatamente conto nella motivazione.
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La soluzione del caso
Come accennato nel preambolo, l’appello viene accolto con annullamento del provvedimento impugnato.
Per chiarezza e precisione il C.d.S. spiega che la decisione non preclude in assoluto all'autorità di p.s. l'esercizio dei poteri di controllo e di riesame, nel caso dovessero veramente emergere elementi di pericolo per le condizioni di sicurezza, ordine pubblico ed incolumità delle persone.
Tutto questo, ovviamente, sempre all’interno della cornice di “adeguata motivazione”.
Avv. Francesco Pandolfi
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