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Sabato, 03 Febbraio 2018 19:19

Armi e reati in giovane età: per la nostra Legge il condannato è "condannato in eterno"?

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La risposta è NO; ... soprattutto la riabilitazione ha un suo peso.

 

 

Andiamo al caso concreto.

Il Questore perde questa causa, dopo aver respinto un’istanza per il rinnovo della licenza di porto di fucile per uso caccia.

 

Ma perché la causa viene vinta dal ricorrente e persa dalla parte pubblica?

 

Ebbene, la sostanza del discorso è praticamente la stessa dell’ultimo post: il principio con il quale bisogna prendere confidenza è che il condannato di tanti anni fa non è un “condannato in eterno”.

Quando la Questura valuta questo tipo di domande deve andare a guardare la situazione attuale e non limitarsi a valutazioni su fatti accaduti 40 anni fa, quando il richiedente era un giovinetto.

 

 

Che cosa è successo:

 

Partiamo dall’antefatto: abbiamo una persona condannata nel 1979 per i reati di furto continuato e porto illegale di armi in concorso.

Nel 1985 ottiene la riabilitazione.

Passano 30 anni e più e arriviamo a noi: il Questore perde questa causa, dopo aver respinto un’istanza per il rinnovo della licenza di porto di fucile per uso caccia.

Nella motivazione del decreto il Questore dice che, nonostante la pronuncia di riabilitazione sopravvenuta nel 1985, la condanna per i reati indicati all’art. 43 T.U.L.P.S. è ostativa al rilascio della licenza di porto d’armi, senza lasciare all’amministrazione alcuna possibilità di deroga.

 

 

 

Che cosa significa:

in pratica il principio espresso dal Tar è questo: il “no” su questi casi non può essere sempre automatico.

Tradotto: nel nostro Ordinamento non può esistere il “condannato in eterno”.

Dobbiamo seguire un attimo il ragionamento della Sezione Prima del Tar Piemonte (sentenza n. 69/18) e sarà tutto più chiaro.

E’ innegabile, dicono i Giudici, che l’amministrazione abbia la possibilità di trarre argomenti prognostici di segno negativo anche quando, pur non rientrando il reato fra quelli che per la loro consumazione richiedono necessariamente l’uso delle armi, lo stesso sia indice di una personalità incline al disprezzo di beni di elevata importanza per la collettività.

Tuttavia, questi presupposti non ricorrono nel caso del (all’epoca) giovane condannato per furto e porto illegale di armi.

 

Difatti:

  • la risalenza e l’episodicità della condotta criminosa accertata,
  • la giovane età del ricorrente al tempo dell’accaduto,
  • la tenuità delle conseguenze penali,

sono tutte circostanze che non incrinano indefinitamente l’immagine di affidabilità dell’istante.

 

Anche qualora si volesse ritenere che l’art. 43, in deroga a quanto stabilisce l’art. 11 t.u.l.p.s. non abbia voluto far salvi gli effetti della riabilitazione, si impone in ogni caso una lettura evolutiva di queste regole.

Pur concedendo che la riabilitazione non escluda, di per sè, la possibilità per l’Autorità di sicurezza di apprezzare la vita antecedente del ricorrente in relazione al precedente fatto di reato, la stessa non può considerarsi un fatto irrilevante ai fini della prognosi di affidabilità dell’istante.

 

Difatti, in sede di pronuncia di una domanda di riabilitazione, la prova della buona condotta comporta per il Giudice penale l’acquisizione di indici che abbiano un significato univoco di recupero del condannato ad un corretto modello di vita.

 

La coerenza dell’ordinamento, allora, impone all’amministrazione quanto meno di procedere ad una prognosi concreta che tenga conto del tempo trascorso e della condotta tenuta successivamente al fatto di reato con l’onere di motivare specificatamente i fatti che essa ritenga espressivi di non avvenuto completamento dell’emenda, fermo restando che in linea generale non possono compiersi apprezzamenti negativi in presenza di un solo episodio ostativo mai più ripetuto.

 

Urta la sensibilità comune che, dopo 35 anni di buona condotta (attestata dalla riabilitazione), un cittadino non possa presentarsi dinnanzi all’Amministrazione in condizioni di parità con gli altri cittadini incensurati, sia pure per accedere ad un titolo abilitativo al porto d’armi.

 

 

 

Altre informazioni su questo argomento?

Contatta l’Avv. Francesco Pandolfi

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Francesco Pandolfi e Alessandro Mariani

Francesco Pandolfi

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Francesco Pandolfi AVVOCATO

Lo studio Pandolfi Mariani è stato fondato dall’avvocato Francesco Pandolfi.

Egli inizia la sua attività nel 1995; il 24.06.2010 acquisisce il patrocinio in Corte di Cassazione e Magistrature Superiori. Si è occupato prevalentemente di diritto amministrativo, diritto militare, diritto delle armi, responsabilità medica, diritto delle assicurazioni.

E' autore di numerose pubblicazioni su importanti quotidiani giuridici on line, tra cui Studio Cataldi e Mia Consulenza; nel 2018 ha pubblicato il libro "Diritto delle armi, 20 sentenze utili".

La sua Missione era e continua ad essere con lo studio da lui fondato: "aiutare a risolvere problemi giuridici".

Riteneva che il più grande capitale fosse la risorsa umana e che il più grande investimento, la conoscenza. Ha avuto l'opportunità di servire persone in tutta Italia.

I tratti caratteristici della sua azione erano: tattica, esperienza, perseveranza. coraggio, orientamento verso l'obiettivo.

Tutto questo resta, lo studio da lui fondato continua l’attività con gli avvocati e i collaboratori con i quali ha sempre lavorato nel corso degli anni e ai quali ha trasmesso tutte le sue competenze.

 

 

Alessandro Mariani Avvocato

data di nascita: 08/04/1972

 

Principali mansioni e responsabilità: 
Avvocato
Consulenza legale e redazione atti giudiziari per il recupero del credito (Decreto Ingiuntivo e Costituzione nelle opposizioni);
Attività giudiziale e stragiudiziale con apertura di partita iva ed iscrizione alla casa forense;
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