Per regola generale, il diniego di rinnovo del porto d’armi deve essere supportato da una corretta valutazione dei fatti.
L’eventuale lontananza nel tempo e la natura dei reati commessi senza violenza, ad esempio non attinenti l’uso delle armi, non possono reggere il giudizio di inaffidabilità espresso dall’Amministrazione.
Il principio è stato ribadito dal Tar Napoli con la sentenza n. 5897 del 22.10.2019, pubblicata l’11.12.2019.
Nel caso concreto esaminato dal Tribunale, il Questore ha disposto la sospensione della validità della licenza di porto di fucile per uso caccia.
Indice
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Pare che a sostegno della sospensione ci siano i seguenti elementi ostativi emersi nel corso dell’istruttoria: una condanna a pena restrittiva della libertà personale superiore a tre anni per il reato di peculato, oltre al profilo al di fuori dei dettami di legge a riferimento di reati commessi nel 2000, sentenziati nell’anno 2004 e riportati nel Casellario Giudiziale, art. 381 c.p. (evasione), art. 328 c.p. (omissione di atti d’ufficio), idonei a suffragare un giudizio prognostico negativo circa il grado di affidabilità dell'interessato, stante la mancanza dei requisiti indispensabili richiesti dall’art. 11 del T.U.L.P.S.
La persona interessata ritiene invece che le circostanze addotte dall’Amministrazione non giustificano il provvedimento, non potendo esso fondarsi né sull’ultima condanna per peculato (a due anni e tre mesi) stante la mancanza di ogni automatismo preclusivo non rientrandosi nell’ipotesi di cui al comma 1 dell’art. 11; né le ulteriori condanne indicate in provvedimento, in quanto relative a reati non violenti e commessi senza l’uso delle armi e, in ogni caso, assai risalenti nel tempo.
Il ricorso viene accolto.
La parte ricorrente lamenta l’illegittimità del provvedimento, in quanto basato sull’erroneo presupposto della definitività della condanna a pena restrittiva della libertà personale superiore a tre anni per peculato continuato ex artt. 81 e 314 c.p.; condanna che in astratto impone all’autorità di P.S. l’adozione del provvedimento.
Su questo punto il ricorrente segnala un evidente errore nella decisione assunta dall’Amministrazione, originato dal contrasto esistente tra il dispositivo e la motivazione della sentenza della Corte d’Appello posto che, a differenza di quanto riportato in motivazione, la condanna inflitta in dispositivo risulta inferiore a tre anni.
Il contrasto, infatti, sarebbe stato superato in modo sbagliato dall’Autorità di P.S., ovvero ritenendo di conferire prevalenza alla motivazione, in contrasto con la prevalente giurisprudenza che addiviene invece all’opposta soluzione.
Ebbene, questa critica viene ritenuta fondata dal Collegio giudicante.
Nel caso, non solo aiuta l’orientamento della Cassazione, secondo cui: «in caso di difformità tra il dispositivo e la motivazione, il primo prevale sulla seconda, in quanto il dispositivo costituisce l'atto con il quale il giudice estrinseca la volontà "della legge" nel caso concreto, mentre la motivazione assolve una funzione strumentale», ma anche è facile pervenire al medesimo risultato alla luce delle sentenze penali che si sono succedute dal xxxx al xxx7 in relazione al medesimo fatto di reato.
In particolare, tanto emerge dalle motivazioni della sentenza della Corte d’Appello di Napoli che - all’esito del giudizio di rinvio in cui era in contestazione la sola rideterminazione della pena allo stesso inflitta in primo grado (superiore a tre anni) - ha deciso nei modi di cui appresso: “Visti gli artt. 523, 627 cpp, decidendo su rinvio della Suprema Corte di cui alla sentenza xxxxx3 e in riforma della sentenza resa dal Tribunale di Napoli in data xxxxxx nei confronti di xxxxxxxxx, appellata dall’imputato, con le già concesse attenuanti generiche e la già ritenuta continuazione ridetermina la pena allo stesso inflitta in anni due mesi tre di reclusione. Conferma del resto...”.
Infine, le considerazioni risultano anche confermate dall’ordinanza della Corte d’Appello di Napoli del 2019, depositata in atti dalla Questura.
Dunque, rideterminata la pena inflitta al ricorrente, all’esito degli innumerevoli giudizi, in misura inferiore a tre anni di reclusione, risulta del tutto inconferente il richiamo al primo comma dell’art. 11 cit, non rientrando la fattispecie concreta nel novero delle ipotesi in astratto contemplate dalla norma in questione.
Né può ritenersi sufficiente a fondare il provvedimento il riferimento alle ulteriori condanne riportate dal ricorrente e succintamente elencate in parte motiva, in quanto, venuto meno il decisivo rilievo della sussistenza dell’automatismo preclusivo imposto dal TULPS, l’amministrazione avrebbe dunque dovuto adeguatamente motivare la decisione – discrezionale e non più vincolata – di revocare il titolo di polizia sulla base di una più approfondita valutazione della complessiva personalità dell’interessato e della sua affidabilità nell’uso delle armi.
E’ evidente, infatti, che nel caso in esame tali ulteriori condanne, che in forza della valutazione dell’autorità di Polizia avrebbero comunque giustificato l’emissione di un provvedimento di revoca della licenza in questione, oltre a non essere ascrivibili nel novero dei reati di cui agli artt. 11, comma 1 e 2, e 43 del T.U.L.P.S., sono relative a fattispecie di reato risalenti a circa venti anni fa, che già in precedenza non avevano impedito il rinnovo del titolo.
Il T.U.L.P.S., nel disciplinare il rilascio della licenza di porto d'armi, mira a salvaguardare la tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica e il potere di rilasciare le licenze per porto d'armi costituisce una deroga al divieto sancito dall'art. 699 del codice penale.
Regola generale è infatti quella del divieto di detenzione delle armi e l’autorizzazione di polizia può rimuoverlo in presenza di specifiche ragioni e in assenza di rischi anche solo potenziali, che è compito dell'Autorità di pubblica sicurezza prevenire.
Ciò comporta che - oltre alle disposizioni specifiche previste dagli articoli 11, 39 e 43 del testo unico n. 773 del 1931 - rilevano i principi generali del diritto pubblico in ordine al rilascio dei provvedimenti discrezionali, in modo che il giudizio prognostico di affidabilità nell’uso delle armi deve essere effettuato sulla base del prudente apprezzamento di tutte le circostanze di fatto rilevanti nella concreta fattispecie, al fine di verificare il potenziale pericolo rappresentato dalla possibilità di utilizzo delle armi possedute, e deve estrinsecarsi in una congrua motivazione, che consenta in sede giurisdizionale di verificare la sussistenza dei presupposti idonei a far ritenere che le valutazioni effettuate non siano irrazionali o arbitrarie.
Nel caso di reati risalenti nel tempo, in particolare, l’Autorità di P.S. non può prescindere da una congrua ed adeguata istruttoria, della quale dar conto in motivazione, onde evidenziare le circostanze di fatto che farebbero ritenere che il soggetto richiedente all’attualità sia pericoloso.
Nel caso concreto il provvedimento di diniego di rinnovo del porto d’armi non risulta supportato da una congrua valutazione degli elementi fattuali che, ad avviso del Collegio, in ragione della risalenza nel tempo e della natura dei reati accertati, commessi senza violenza e non afferenti all’uso delle armi, non sono idonei a giustificare il giudizio di inaffidabilità rapportato all’attualità, per come espresso dalla resistente Amministrazione.
In definitiva, il fatto che ci interessa è questo: il Tar accoglie il ricorso ed annulla il provvedimento amministrativo.
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