Se la Questura nega il rilascio del porto di fucile ad uso caccia, per esempio perché ritiene che la buona condotta della persona sia stata in qualche modo intaccata, è necessario che i motivi del diniego siano chiari ed espliciti: in caso contrario l’amministrazione abusa della sua discrezionalità.
Una premessa è doverosa.
Come ben si sa, nell’Ordinamento giuridico italiano il porto d’armi non è un diritto, ma un’eccezione al generale divieto di portare le armi, sancito dall'art. 699 codice penale e dall'art. 4, comma 1, della legge 18 aprile 1975 n. 110.
La deroga a questo principio si giustifica solo nei casi in cui c’è affidamento nel non abuso delle armi.
In pratica: si vanno a scrutare le qualità soggettive dell'interessato.
Queste devono essere tali da potersi ritenere insussistente il pericolo della compromissione dell'ordine pubblico e della tranquilla convivenza civile.
In quest’ottica, passi pure il fatto che il diniego del porto d’armi non implica per forza un abuso nella tenuta delle armi, in quanto basta che il soggetto non dia affidamento di non abusarne; tuttavia è pur sempre necessario che le circostanze sospette siano chiaramente indicate, specificate e argomentate negli atti del procedimento curato dall’Amministrazione, in quanto si deve poter ricostruire l’iter amministrativo e il ragionamento effettuato nella valutazione discrezionale.
Inoltre, le motivazioni addotte nell’eventuale provvedimento di diniego devono essere supportate da presupposti validi, aggiornati e verificabili.
Che cosa vuol dire, in definitiva, questo ragionamento astratto riferito alla questione della buona condotta in relazione al porto di fucile ad uso caccia?
Semplicemente che l’amministrazione, quando pensa di negare il rilascio del porto di fucile ad uso caccia, per esempio perché ritiene che la buona condotta della persona sia stata in qualche modo intaccata, deve sempre motivare il diniego: in caso contrario l’amministrazione abusa della sua discrezionalità e il suo provvedimento sarà certamente ricorribile davanti ai giudici.
Esattamente quello che si è verificato nel caso ultimamente esaminato e risolto dal Tar Bari con la sentenza n. 1326/2020 pubblicata il 26.10.2020.
La questione analizzata è stata, in estrema sintesi, la seguente.
Pare che un bracciante agricolo abbia avuto alcune frequentazioni con persone sospette e gravate da precedenti; inoltre sembra, stando a quanto si può leggere negli atti, che l’interessato abbia frequentato i propri genitori che erano stati accusati per violazione degli obblighi di istruzione scolastica dei figli.
Il Tar, detto in maniera molto chiara e diretta, disarticola la tesi della Questura e della Prefettura, dal momento che gli elementi di dubbio e di sospetto posti a base del diniego sul rilascio sono pure e semplici congetture.
Tutti elementi messi lì senza alcuna chiara motivazione che potesse spiegare, in modo lineare, di quali colpe o di quali sospetti potesse essere incolpato l’interessato.
In effetti, andando a vedere meglio la vicenda, non solo non si è capito bene chi fossero questi pregiudicati, o in compagnia di chi fossero stati individuati, ma la remota vicenda dei genitori era stata definita addirittura con un’assoluzione.
Dunque, in definitiva: ricorso accolto.
Per un verso non c’è traccia documentale specifica, in ordine al tipo di frequentazione pregiudizievole attribuita alla persona interessata, che ha pure dedotto –senza formale contestazione da parte della controparte– che si trattava di colleghi di lavoro (altri braccianti agricoli), incontrati con altri, dei quali peraltro si disconosceva la stessa sussistenza di alcuna vicenda penale.
Per altro verso, in base agli atti prodotti dalla P.A., non è chiaro se siano stati richiamati solo deferimenti all’Autorità giudiziaria, oppure intervenute condanne penali.
Insomma: nella più completa incertezza istruttoria, la persona che ha proposto ricorso ha avuto giustamente ragione.
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