La Legge vuole che le autorizzazioni al porto di armi non vengano rilasciate a persone che, per i loro comportamenti, denotino scarsa affidabilità sul corretto loro uso.
Una persona viene posta agli arresti domiciliari.
L’ipotesi di reato è turbata libertà degli incanti, oltre ad una diversa ipotesi associativa in ambito di criminalità organizzata.
Subito la Questura gli revoca la licenza di porto di fucile ad uso caccia, così come la Prefettura gli notifica il divieto di detenzione armi: l’Amministrazione ritiene in pratica che il reato contestato mal si coniuga con il mantenimento della licenza di porto di fucile.
La nostra persona, ritenendo che non si sta parlando di reati violenti, presenta allora il ricorso per chiedere l’annullamento di questi due provvedimenti e il tribunale amministrativo lo accoglie [1].
Vediamo perché.
Ebbene, per principio la Legge ritiene opportuno evitare che le autorizzazioni al porto di armi vengano rilasciate a soggetti che, per i loro comportamenti pregressi, denotino scarsa affidabilità sul corretto loro uso, potendo costituire un pericolo per l'incolumità e per l'ordine pubblico.
Detto questo, resta però pur sempre necessario che i precedenti comportamenti della persona in questione siano sintomatici, cioè idonei a manifestare una personalità violenta, incline a risolvere situazioni di conflittualità anche con ricorso alle armi, o in grado di attentare all'altrui patrimonio con uso di armi ed in sintesi che non diano garanzia di un corretto uso delle armi senza creare turbativa all'ordine sociale.
La questione è delicata, al punto che la Corte Costituzionale è stata chiamata ad esprimersi, in generale, sul punto.
I Giudici hanno intanto chiarito che non esiste nella Legge alcun carattere immediatamente ostativo, ai fini del rilascio o del rinnovo delle licenze di p.s., nell’aver riportato una condanna in sede penale.
Questo in quanto è necessario procedere ad una concreta prognosi, che tenga conto di una serie di circostanze, quali:
l'epoca a cui risale la condotta contestata,
i ripetuti rinnovi del titolo di polizia nel frattempo intervenuti,
la condotta tenuta successivamente al fatto di reato,
e fatti eventualmente sintomatici di attualità della pericolosità sociale.
Per altro, per tornare un attimo al caso preso qui come spunto per l’analisi in diritto, la sospettata vicinanza del ricorrente ad ambienti mafiosi è rimasta una semplice ipotesi, sfornita di prove.
Insomma, per concludere: prima di arrivare al divieto di detenzione il Ministero dell’Interno deve valutare bene i fatti, oltre che formulare giudizi prognostici.
[1] Tar Lazio Roma Sezione Prima Ter, sentenza n. 12362/21 pubblicata il 30.11.2021.
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