Anche il Ministero può fare passi falsi in causa.
La carenza di motivazione dei provvedimenti, rispetto a deduzioni chiare e puntuali della parte privata, oltre ad un’istruttoria complessivamente insufficiente, possono trasformare in arbitrio la discrezionalità di cui gode l’Amministrazione in materia delle armi, contaminando così il corretto esercizio del potere accordato dalla Legge al Ministero dell’Interno.
Pur disponendo della nota discrezionalità in materia di armi, l’Amministrazione degli Interni deve pur sempre attenersi a regole di buon andamento della funzione amministrativa.
In particolare, se emette un provvedimento carente deve rimediare in sede di riesame (vedi anche: riesame) se non lo fa, si espone alle critiche dei Giudici e viene condannato, quindi soccombe in causa e paga pure le spese di lite.
Indice
L’impostazione giuridica del caso da parte dei Magistrati
Il Ministero dell’Interno perde in appello
Quante volte ci sarà capitato di leggere di denunce penali fasulle, di esposti senza senso (vedi anche: parolacce e querele), di racconti farlocchi di aggressioni e violenza familiare?
Tante volte, o no?
Personalmente, mi è capitato parecchie volte di leggere cose simili.
Ecco, neanche a farlo apposta ultimamente il Consiglio di Stato è stato chiamato ad occuparsi ancora una volta di un caso di questo tipo, dove il titolare della licenza di porto di fucile ad uso sportivo ha subito il diniego del rinnovo per sopraggiunta mancanza di affidabilità (vedi anche: diverbio armi).
Parliamo della sentenza della Terza Sezione n. 3043 del 7 maggio 2020, pubblicata il 13.05.2020.
Pare che la moglie dell’interessato lo avesse denunziato per un’aggressione fisica da parte del marito, prontamente smentita dai figli della coppia che avevano assistito all’intera scena, e che gli agenti avevano effettivamente constatato l’integrità fisica della donna e l’assenza di pericoli per la sua incolumità, tanto che non avevano neppure ritenuto di dover sequestrare in via cautelativa le armi regolarmente detenute: il sequestro avveniva solo un mese dopo e veniva motivato esclusivamente con il riferimento a tale intervento; infine, il mese successivo la donna aveva abbandonato il tetto coniugale in attesa delle decisioni del Tribunale Civile in ordine alla separazione, mentre i figli della coppia avevano deciso di continuare a vivere con il padre.
Ora, rispetto a tutta questa vicenda, vediamo come e perché è possibile che il Ministero dell’Interno, svolgendo le sue difese nella causa amministrativa di primo e secondo grado, commetta grossolani errori.
L’impostazione giuridica del caso da parte dei Magistrati
Dicono i Giudici: è vero che nel nostro ordinamento non c’è una posizione di diritto soggettivo assoluto in relazione all’ottenimento ed alla conservazione del permesso di detenzione e porto di armi in deroga al generale divieto di cui all’art. 699 c.p. e di cui all’art. 4, comma 1, l. 18 aprile 1970, n. 110, né è in dubbio che l’Amministrazione goda di ampia discrezionalità nel formulare il proprio giudizio di non affidabilità del soggetto richiedente o già titolare della licenza di porto d’armi.
A questo proposito, per l’emissione di un provvedimento negativo non è necessario né un giudizio di pericolosità sociale del soggetto né un comprovato abuso nell’utilizzo delle armi in quanto, ai fini della revoca della licenza l’Autorità di pubblica sicurezza può apprezzare discrezionalmente, quali indici rivelatori della possibilità d’abuso delle armi, fatti o episodi anche privi di rilievo penale, indipendentemente dalla riconducibilità degli stessi alla responsabilità dell’interessato, purché l’apprezzamento non sia irrazionale e sia motivato in modo congruo trattandosi di un provvedimento, privo di intento sanzionatorio o punitivo, avente natura cautelare al fine di prevenire possibili abusi nell’uso delle armi a tutela delle esigenze di incolumità di tutti i consociati.
La natura cautelare di questi provvedimenti richiedono all’Amministrazione di effettuare una valutazione sulla personalità del soggetto, dando conto nella motivazione del provvedimento finale di tutte le circostanze dalle quali abbia tratto elementi di segno sfavorevole all’accoglimento delle istanze del privato.
In particolare, dalla lettura dei provvedimenti dovranno emergere con chiarezza le ragioni per le quali la valutazione della personalità complessiva del soggetto, della sua storia di vita pregressa e delle presumibili evoluzioni del suo percorso di vita ha condotto l’autorità a determinarsi nel senso di vietargli la detenzione e l’uso delle armi, avendolo ritenuto allo stato pericoloso o comunque capace di abusarne (vedi anche: pericolo di abuso armi).
Non potrà, invece, ritenersi sufficiente una motivazione scarna, fondata su un singolo elemento non corroborato da ulteriori indizi.
Dunque, premesso tutto questo, il Collegio ricava che il provvedimento impugnato non è sorretto da adeguata motivazione, in quanto l’Amministrazione non ha chiarito gli elementi da cui ha desunto l’inaffidabilità della persona in questione rispetto all’uso lecito delle armi.
Dai provvedimenti risulta infatti che le misure disposte si fondano su circostanze che sono risultate del tutto prive di fondamento.
In sede penale, infatti, è stata disposta l’archiviazione del procedimento penale avviato a seguito delle denunce di violenza e maltrattamenti sporte dalla moglie; la procedura di separazione risulta conclusa e la convivenza coniugale risulta interrotta da mesi, senza che si siano verificati episodi critici medio tempore; la correttezza del comportamento dell’interessato nei confronti della di lui moglie è stata sempre confermata dai figli, spesso testimoni delle liti tra i genitori; anche quanto accaduto la sera dell’intervento delle Forze dell’ordine appare significativo, dal momento che, da un lato, i figli assistettero al litigio tra i genitori e smentirono davanti agli agenti la versione dei fatti fornita dalla madre, negando che il padre le avesse usato violenza, e, dall’altro e soprattutto, gli agenti intervenuti non ritennero di dover procedere al sequestro cautelativo delle armi detenute dal padre, segno evidente che lo stato in cui trovarono la donna e l’impressione generale che ebbero della situazione familiare non fornirono loro il benché minimo sospetto di pericolo di abuso delle armi.
Il sequestro cautelativo di queste avvenne ben un mese dopo, e la considerazione di tale lasso temporale vale da sola a rendere l’idea che la stessa Amministrazione non aveva percepito la situazione come richiedente un’azione immediata, il che connota di irragionevolezza tale atto e tutta la sequenza procedimentale che ne è scaturita fino all’adozione dei provvedimenti per cui è causa.
Il Ministero dell’Interno perde in appello
Fatte tutte queste valutazioni, appare evidente alla fine che l’appello proposto dall’amministrazione fosse destinato a ricevere una sonora batosta, non solo e non tanto per un profilo di inammissibilità del gravame pur rilevato dai Giudici, quanto piuttosto proprio per l’infondatezza nel merito.
Con spese di lite, a chiusura del caso, che hanno seguito la soccombenza tenuto conto anche del comportamento tenuto dalla Amministrazione dopo la pubblicazione della sentenza appellata (Tar Lombardia) che aveva ordinato il riesame dell’istanza della persona interessata.
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