Porto di pistola, difesa personale e principio di precauzione: la confusione creata da diverse tesi giurisprudenziali.
Uno degli argomenti più instabili che si possa immaginare è questo:
la conferma del diniego dell'autorizzazione al porto di pistola nei confronti del condannato e poi riabilitato per uno dei delitti di cui all'art. 43 co.1 lett. c) TULPS.
Argomento rispetto al quale gli appartenenti al mondo armiero vorrebbero solo chiarezza ed uniformità da parte dei giudici, non continui cambiamenti di pensiero che finiscono per creare appunto confusione e non risolvere i problemi reali.
La confusione che regna sovrana su questo tema dipende molto dalla scarsa chiarezza della Legge, prima ancora che delle sentenze. In soldoni: un contesto normativo che non aiuta.
Eppure basterebbe codificare il diritto di girare armato a certe condizioni (così come è stato fatto a livello costituzionale negli Stati Uniti) per evitare talune sentenze contrastanti.
Ma si sa: il nostro Ordinamento su certi argomenti non transige.
Chiarezza, dicevamo, che aiuterebbe molto anche la soluzione dei casi più complicati, come quelli, per esempio, dell’incidenza della riabilitazione penale rispetto al porto d’armi per difesa personale già concesso anni addietro e poi magari negato di recente.
In questi casi viene infatti subito da chiedersi: ma se il porto a quella persona è stato ripetutamente concesso, per anni o decenni, come mai all’improvviso spunta fuori il diniego?
E’ un vero rompicapo, non c’è che dire.
Vediamo allora questo rebus prendendo spunto da un caso concreto.
Cominciamo con il Tar Piemonte
Il T.A.R. Piemonte (sentenza n. 484/2016) tratta un caso di diniego di rinnovo di licenza di porto di pistola per difesa personale e accoglie il ricorso.
In sintesi, gli argomenti del Tar poggiano su questi tre dati di fondo:
- in presenza di riabilitazione per reato commesso intervenuta da alcuni decenni dal provvedimento negativo,
- in presenza di una lunga serie di rinnovi del porto d'armi concessi alla persona nel periodo intermedio:
- la Prefettura deve motivare in modo chiaro e comprensibile come mai l’interessato non è affidabile oggi: se non lo fa, sbaglia.
Da precisare (e per restare sull’esempio del Tar che stiamo analizzando) che il diniego di rinnovo del porto di pistola, annullato dal primo giudice, si fonda secondo il provvedimento prefettizio sulla circostanza che l'appellato fu condannato nel 1977 a pena detentiva e pecuniaria per porto e detenzione illegale di armi e munizioni; nel 1987, dopo 10 anni, è intervenuta sentenza di riabilitazione.
Ma qui viene il bello (per modo di dire).
Le diverse tesi del Consiglio di Stato
Tanto per restare in tema di opinioni contrastanti e di diverse interpretazioni della Legge, di fronte ad un problema così complesso (che comunque il Tar ha risolto nel modo che abbiamo detto) nel corso del tempo il Consiglio di Stato ha seguito due orientamenti diversi, finendo per dire prima una cosa e poi un’altra, favorendo la confusione interpretativa.
Il primo orientamento è stato caratterizzato dalla sentenza della III Sez. del 19/2/2013, la n. 822: si tratta di tesi analoga a quella del Tar e, quindi favorevole all’interessato.
Il secondo segue un’altra strada.
In effetti, più di recente, il Consiglio ha affermato che nei casi previsti dall'art. 43 c. 1 TULPS - ed è il caso del reato di porto abusivo di armi menzionato alla lettera c) di tale articolo - la riabilitazione non farebbe venir meno la doverosità del diniego o della revoca del porto d'armi.
I due orientamenti concordano, forse, su 3 principi:
1) La condanna per uno dei reati indicati all'art. 43 co1 lettere a) b) c) vincola l'Amministrazione a negare o revocare il porto dell'arma.
2) il possesso di armi, è nel nostro ordinamento, in via generale vietato, salva autorizzazione in presenza di trasparenti e accertati requisiti.
L'interesse privato al possesso di un'arma, deve, di regola, cedere di fronte all'interesse superiore dello Stato che tutela, in via esclusiva (ma è in grado di farlo veramente?), la sicurezza dei cittadini attraverso i propri apparati.
3) La valutazione prefettizia, quando non è vincolata, deve dire se l'interessato può offrire garanzie di affidabilità sull'uso corretto dell'arma.
Diverse tesi che certo non aiutano il cittadino
Il punto su quale invece il Consiglio ha espresso valutazioni e principi differenti in sentenze e pareri che sono intervenuti nel corso degli ultimi anni, può essere tradotto nei termini seguenti:
- è necessario che la sicurezza pubblica affidata ai Prefetti richieda l'ancoraggio a fatti che consentano una valutazione "attuale" di non affidabilità;
- la conseguenza è che, se ad una condanna avuta da tantissimo tempo sia poi seguita la riabilitazione, quella condizione di incapacità prevista dall'art. 43 TULPS non si modifica, anche se sia passato un lungo lasso di tempo.
Il principio di precauzione
La domanda che mi pongo, a questo punto, è solo una: ma i giudici del Tar del 2016 e del Consiglio di Stato del 2013 avevano di fronte lo “stesso” principio di precauzione che hanno avuto i giudici del secondo orientamento?
E’ noto che il principio di precauzione consente al legislatore di sottrarre agli organi competenti il potere di valutare, caso per caso, se la persona possa essere autorizzata a portare l'arma.
Questo perché il rischio dell'abuso per gli autori di taluni delitti è talmente elevato in relazione al valore del bene della sicurezza pubblica, che persino all'organo competente - e solo in questi limitati casi - è sottratta la valutazione probabilistica di insicurezza sui futuri comportamenti di tali soggetti.
Capirete allora il senso dell’interrogativo di partenza: una decisione così delicata per la collettività viene presa per decenni in un senso e poi, cambiando l’interpretazione, in un altro?
A questo punto, forse aspettando il …. prossimo orientamento, vedremo la fine di questo film!
In conclusione
Serve una Legge chiara, non interpretazioni.
Altre informazioni su questo argomento?
Contatta l’avv. Francesco Pandolfi
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